[Letto per voi] #Contaminati. Come ho fatto pace con la multipotenzialità

È indubbio che chi non riesce a definirsi in un modo univoco, professionalmente parlando, si senta fuori posto, in un mondo dove le etichette rendono tutto più semplice.
Sono un medico, sono un avvocato, sono un insegnante. Ho un lavoro definito, basta una parola e chiunque capisce, se non il contenuto del mio lavoro, almeno il contesto in cui lo svolgo: curo i malati, sostengo cause in tribunale, trasmetto conoscenze. Completo una casellina, ho un’identità.
Ma chi intreccia le sue competenze in professioni che non hanno un nome ma vengono descritte con una perifrasi…come si sentono? E quelli che un’identità professionale non riescono nemmeno a immaginarsela, perchè attratti da tante discipline spesso in contrasto tra loro?
Qualcuno ha provato a chiamarli multipotenziali, cercando di dare una definizione positiva ad una caratteristica percepita come disagio. E moltissime persone hanno tirato un sospiro di sollievo, si sono sentite deresponsabilizzate: “la colpa non è mia, sono fatto così, sono un multipotenziale!”
Ma non possiamo essere tutti multipotenziali: un semplice test non può bastare per definirci con una delle diverse sfaccettature di questo termine, che così facendo ingloba il 90% delle persone e non descrive più una minoranza. Se siamo tutti multipotenziali, perchè continuiamo a sentirci a disagio? C’è qualcosa che non va.
Nel dare alcune risposte alle mie perplessità mi viene in aiuto Giulio Xhaët, con il suo libro “#Contaminati” (Hoepli, 2020).
Vediamo assieme alcuni punti.
L’approccio che critico a Emilie Wapnick è la contrapposizione tra “noi multipotenziali che possiamo essere tutto” e “voi specialisti che non ci capite”.
Non nego la necessità di un approccio interdisciplinare, anzi: ma farsi la guerra tra specialisti e generalisti è una modalità che non capisco. In questo momento c’è bisogno di entrambe le figure.
Xhaët riprende da David Guest la definizione di professionisti “T-shaped” (a forma di T) che, rispetto a quelli descritti come “a forma di I” o di “trattino”, hanno diverse conoscenze in ambiti diversi e sono specializzati in una disciplina. Questo diventa poi il punto di partenza di chi, nel tempo, approfondisce altre materie e da “T” si trasforma in “pettine”.

Anche uno specialista può essere contaminato e chi si affanna a seguire troppe cose contemporaneamente non è necessariamente e in automatico un contaminato. Il punto che differenzia un contaminato è la capacità di decidere le priorità e vedere connessioni dove altri non le vedono.
“A rendere i contaminati protagonisti dei nostri tempi è la capacità di abitare spazi di competenza dove gli algoritmi si muovono a fatica: i ponti da saperi, discipline e culture.”
G.Xhaët
Sono quindi 3 le competenze che permettono ad un contaminato di vivere con consapevolezza questo tempo:
Link Learning – la capacità di imparare velocemente mettendo in contatto tra loro contenuti di diverse discipline, ampliando in questo modo gli orizzonti e portando vera innovazione (e qui, se volete, ma anche su indicazione dello stesso Xhaët, siamo sul territorio della multipotenzialità)
Complex problem solving – affrontare scenari complessi, quelli in cui non è più possibile solo scomporre un problema in tanti piccoli problemi da risolvere uno alla volta; ma dove è necessario vedere le relazioni tra i vari elementi per arrivare ad una soluzione. Qui la chiave è data dalla curiosità, che spinge a cercare altri punti di vista, dai quali vedere le situazioni e scoprire nuove connessioni.
Network inclusion – che fare rete è importante lo ripeto fino alla noia: ho tenuto webinar, ci ho scritto post, lo ribadisco sui social, ne faccio una testa tanta ai miei clienti. Qui ho trovato un’ulteriore conferma all’importanza della rete, che diventa un elemento fondamentale in questo mondo complesso dove anche il più colto ed intelligente del mondo non potrà mai sapere tutto. E quindi avrà bisogno degli altri.
Sapere a chi chiedere aiuto quando c’è una necessità specifica è una competenza importantissima, e avere una rete vasta (e contaminata!) a cui rivolgersi diventa strategico: per questo il network dovrà essere sia ampio che profondo, e i legami che lo compongono dovranno essere veri e autentici (leggi, banalmente: non collezionare contatti su LinkedIn come fossero francobolli).
Ecco quindi che, rispetto a Emilie Wapnick, Giulio Xhaët fa emergere l’importanza non solo della conoscenza della materia, ma anche della necessità dei collegamenti.
Essere molto curiosi di tante cose non fa di noi dei multipotenziali, ma magari dei contaminati sì, purché siamo capaci di creare e sviluppare reti che si contaminino a vicenda, e si aiutino a risolvere problemi complessi.
L’autore infine chiude con un esercizio utile a mappare il proprio “quoziente di contaminazione”: dirò solo che è un bell’esercizio che varrebbe la pena includere in un percorso di bilancio delle competenze 😉 ma te lo lascio scoprire se vorrai leggere il libro.
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